Team Refugees
Un sogno attraverso guerra e mare. Le olimpiadi di Rio hanno raccontato anche la bella favola della squadra formata da atleti in fuga da guerre e tirannie.
di Marta Angelucci“Il judo non mi ha mai dato soldi, ma mi ha dato un cuore forte” Yolande Mabika
La crisi globale dei rifugiati ha raggiunto in questi ultimi anni i più alti picchi di “migranti forzati” che si siano mai visti dalla seconda guerra mondiale. Quest’anno, per la prima volta, è stata istituita, per le Olimpiadi di Rio, la squadra di Atleti Olimpici Rifugiati, sotto iniziativa del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) e sotto il patrocinio dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Tale iniziativa è stata promossa per porre sotto i riflettori la difficile e delicata questione dei rifugiati, nel tentativo di dar loro, a livello sportivo, una “casa” nel villaggio olimpico e l’opportunità di vivere il sogno dei giochi, partecipando sotto la bandiera olimpica. Il team era composto da dieci membri: otto africani e due siriani; sei uomini e quattro donne, divisi in tre differenti discipline (Atletica, Judo e Nuoto) guidati dall’atleta keniota Tegla Loroupe, specializzata sulle lunghe distanze ed attuale detentrice del record mondiale per i 20mila, 25mila e 30mila metri piani. Tegla è anche ambasciatrice ONU e UNICEF per lo sport ed è la fondatrice di un’organizzazione benefica a suo nome. Quelle degli atleti sono storie che si assomigliano nelle loro terrificanti vicissitudini; vite sconvolte dalla guerra civile, capace di spazzare via case e di dividere famiglie. James Chiengjiek ad esempio, atleta ottocentista, vide suo padre morire durante la seconda guerra civile sudanese, decidendo di fuggire dal paese per scappare al reclutamento forzato come bambino soldato. Come lui, anche Yiech Biel, ottocentista, scappò dal Sudan a dieci anni; entrambi ricordano come non avessero scarpe per correre ed allenarsi, ferendosi molto spesso i piedi, e di quanto il clima nel campo di Kakuma (uno dei più grandi campi profughi al mondo, in Kenya) fosse sfavorevole per correre in assenza di una palestra. Gli altri membri della categoria di atletica erano Yonas Kinde, maratoneta ed unico etiope (gli altri atleti sono tutti rifugiati del Sudan del Sud); Paulo Lokoro, mezzofondista fuggito in Kenya a quattordici anni; Rose Lokonyen, ottocentista e portatrice della bandiera alla cerimonia di apertura; e Anjelina Lohalith, mezzofondista, costretta a fuggire a sei anni dal proprio villaggio distrutto. Nella categoria del Judo, hanno partecipato invece due rifugiati provenienti dal Congo, Popole Misenga (categoria 90 kg) e Yolande Mabika (categoria 70 kg), che avevano ottenuto lo status di rifugiati presso il Brasile durante i Campionati Mondiali di Judo del 2013: purtroppo, durante questa esperienza, vissero esperienze agghiaccianti. Entrambi hanno raccontato di come i loro allenatori li rinchiusero in una camera d’albergo, confiscandogli i passaporti, segregandoli e affamandoli, spendendo tutti i fondi federali stanziati per i due atleti in prostitute e alcool. Quando perdevano una gara, spesso venivano rinchiusi dentro una gabbia; gli abusi sono finiti quando Yolande riuscì a fuggire, trovando aiuto presso il quartiere africano di Rio, tornando a prendere Popole, liberandolo. In quel momento decisero di chiedere asilo. Ultima categoria è quella del nuoto, dove si sono messi in gioco Rami Anis, centometrista stile farfalla, e la giovanissima Yusra Mardini, classe ’98 e centometrista stile libero. Rami, ora rifugiato in Belgio, ereditò la passione per il nuoto da suo zio Majad, nuotatore siriano e sua grande fonte di ispirazione. Scappò da Aleppo, raggiungendo suo fratello maggiore a Istanbul. Non avendo però lo status di rifugiato in Turchia, non avrebbe potuto partecipare alle gare: “È come se qualcuno studiasse, studiasse, studiasse, e poi non potesse fare il suo esame.” Decise quindi di affrontare il mare su un'imbarcazione di fortuna, raggiungendo le coste della Grecia e trovando finalmente accoglienza in Belgio. Ultima, non per importanza, è la nuotatrice di Damasco Yusra Mardini, la cui storia ha sbalordito il mondo, trasformandola a pieno diritto in un’eroina, ben oltre il mondo sportivo. La sua famiglia ha l’acqua nel sangue: anche suo padre e sua sorella Sarah sono nuotatori, ed è proprio con quest’ultima che Yusra scappò in Libano e poi in Turchia, per sfuggire alla guerra in Siria. Anche per loro la tappa successiva fu la Grecia: presero la decisione di salire su un piccolo gommone, adatto a un numero di sei/sette persone massimo, con altri diciotto migranti. Nel transito verso le coste greche però, il motore si fermò e il gommone iniziò ad affondare; sull’imbarcazione di fortuna, solo lei, sua sorella e un’altra persona erano in grado di nuotare ed è qui che decisero di tentare l’impossibile: trainare il gommone a nuoto fino all’isola di Lesbo. L’impresa eroica e titanica durò tre ore e mezza, e fu solo la lotta per la sopravvivenza e la determinazione che guidarono Yusra in mezzo al mare: “Sarebbe stato vergognoso per me se le persone sulla nostra barca fossero annegate. Io non avevo intenzione di stare lì a disperarmi che sarei morta anch’io annegata”. Attraverso l’Europa, Yusra riescì ad arrivare in Germania insieme a sua sorella, e a Berlino ottennero asilo, riuscendo in seguito a ricongiungersi coi propri genitori.
“Voglio dimostrare a tutti che, dopo il dolore, dopo la tempesta, arrivano giorni di sereno.” Yusra Mardini