Rugby coppa del mondo per SportClub
Siya Kolisi è il primo capitano nero del Sud Africa ad aver sollevato la William Webb Ellis Cup. Se glielo dite però s’incazza e non conviene. Siya vorrebbe passare alla storia per meriti sportivi e non per il colore della pelle ma purtroppo certi stereotipi non si cambiano con una meta. E In verità fa più notizia un nero sulla cima del mondo che la vittoria per la terza volta della Coppa del Mondo da parte di una superpotenza. Retaggi di oltre cento anni di storia, perché il rugby da queste parti è stato sempre il simbolo degli afrikaner, odiato dalla maggioranza nera del paese. Adesso invece che al potere ci sono proprio i neri sono cambiati solo i riferimenti ma la sostanza – la discriminazione sociale – è rimasta. Corruzione e scandali politici sono all’ordine del giorno, la rabbia sociale è dilagante. I bianchi fondano comunità solo per loro e lamentano discriminazioni da parte della politica. Non è cambiato molto. Adesso sono i boeri, una volta l’élite del paese, a rischiare di più perchè non hanno più lo stesso potere. Le loro proprietà rischiano l’esproprio forzato da parte del governo che vorrebbe ridistribuire la ricchezze assegnate ai bianchi secondo il “Natives Land Act” del 1913. E’ un paese alla sbando. Per sentirsi tutti fratelli non basta vincere un titolo mondiale del rugby. L’immagine di Kolisi con la Coppa del Mondo è stato un terremoto per i vecchi tradizionalisti. Table Mountain ha tremato. La storia ovale è stata azzerata in un solo colpo. I bianchi non sono più gli unici proprietari degli Springboks, che una volta era anche il simbolo dell’apartheid. Nel 2007, quando Nelson Mandela alzò il trofeo dichiarando la celebre frase “one nation, one team”, in squadra c’era un solo nero. Anzi un coloured: Chester Williams, diventato eroe nella finale vinta sugli All Blacks e scomparso un mese prima del mondiale tra la quasi indifferenza. Madiba chiese a tutti di tifare per la nazionale di rugby, quella odiata nelle township dove si giocava solo a calcio. Ama il tuo nemico, diceva Mandela. Messaggio che arrivò a destinazione e che riunì bianchi, neri e coloured. 11 etnie tutti insieme ma dopo non c’è stato più nessuno come lui. Nel 2007 Siya era un bambino e a casa non aveva la tv, la finale la seguì in un bar della township di Zwid, a Port Elizabeth, una delle megalopoli dove la vita per i neri è più difficile. La vittoria del mondiale 2019 segna comunque un cambiamento epocale perché per la prima volta la nazionale di rugby è veramente multietnica. In prima linea ci sono giocatori neri più grossi, forti e bravi di chi li ha preceduti, naturalmente bianchi. Fino a qualche tempo fa i neri non avevano accesso al rugby anche perché erano troppo magri e malnutriti. Anche questa condizione era di fatto una discriminazione. Oggi invece anche i neri hanno muscoli d’acciaio, si nutrono con le stesse vitamine dei bianchi e soprattutto non hanno più bisogno delle leggi del governo sulle quote nere in nazionale. Una politica che fece sprofondare il rugby sudafricano. Con la vittoria sull’Inghilterra nella finale giapponese gli springboks tornano in cima al mondo anche se sulla maglia le fazioni più estreme del nuovo governo hanno ottenuto di spostare il simbolo dalla posizione del cuore al braccio. Cambia poco ma la guerra tra bianchi e neri continua. Mandela aveva difeso oltre ogni immaginazione il simbolo del rugby del passato perché voleva unire tutti insieme nella più complicata nazione del mondo. La Rainbow Nation, la nazione arcobaleno.
I giocatori della nazionale giapponese sono gli ultimi samurai del Sol Levante. Sono entrati con merito nei quarti di finale della coppa del mondo, cosa mai riuscita a un paese fuori dall’ex Impero Britannico. Hanno battuto Irlanda e Scozia, hanno demolito a suon di placcaggi e corse sfrenate ogni abitudine (sbagliata) del vecchio mondo ovale. Il Giappone ha mostrato un modello organizzativo invidiabile. Hanno ottenuto l’organizzazione del Mondiale e hanno zittito tutti dimostrando che a rugby si può giocare a tutte le latitudini. Bravi e perfetti. I giocatori hanno divertito in campo mostrando un gioco diverso e spettacolare, stadi pieni stracolmi e ascolti tv da record. Sponsor e business, tutti felici, tutti ricorderanno il mondiale giapponese. L’immagine dell’inchino di tutta la squadra a fine partita ha fatto il giro del mondo e racconta il rispetto, l’educazione, l’orgoglio e i miglioramenti tecnici ottenuti. Senza dimenticare il tifone Hagibis che ha spazzato via mezzo Giappone ma non il mondiale. La partita spareggio con la Scozia ha fatto registrare 60 milioni di telespettatori. Il processo di maturazione è stato lungo ma i dirigenti giapponesi hanno avuto il coraggio di lasciar lavorare i tecnici in maniera indipendente, difficile da comprendere per noi dell’Italrugby troppo presi da interessi personali. John Kirwan prima ed Eddie Jones dopo hanno stravolto tutto senza avere interferenze. A volte basta poco per rovinare il lavoro dei tecnici, basta chiedere di far giocare un giocatore di un club anziché un altro. Le multinazionali nipponiche hanno investito a occhi chiusi e non ci sono state polemiche strazianti anche nella costruzione della squadra formata da solo undici giocatori (la metà) nati in Giappone. Gli altri sono stati accettati perché sono diventati più giapponesi di tutti. Un fenomeno che ha investito tutto il paese. Una lezione per tutto il nostro rugby. Saremo mai così? Qualche anno fa il magazine de La Gazzetta dello Sport dedicò la copertina a un giovane rugbysta inglese di 9 anni titolando n maniera provocatoria ma forse anche disperata: CI BATTERA’ ANCHE LUI?.