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Sport Business: in Italia servono competenza e coraggio imprenditoriale

di Marco Oddino

Impiantistica, diritti e strategie future dello sport tricolore, a partire dal calcio, nella disamina dI Marcel Vulpis, direttore di Sporteconomy, l'agenzia giornalistica specializzata in economia e politica dello sport. 
Ecco cosa ha raccontato a Sport Club.

 Da molti anni l’Italia ha il problema dei diritti tv del calcio, nettamente più bassi rispetto ai maggiori campionati europei (Premier, Bundesliga e Liga): quale potrebbe essere una soluzione per cercare di accorciare questo gap?
Sicuramente bisognerebbe ripartire dal progetto sportivo e dal rilancio, nel suo complesso, del sistema calcio. Ma il progetto sportivo deve essere inserito in una visione più complessiva, che riguarda l'impiantistica sportiva, un nuovo "rapporto" con i tifosi e gli stakeholders, la governance del nostro calcio (dai club fino alle dirigenze delle Leghe), all'ingresso di manager provenienti da altri settori (il calcio deve "contaminarsi" se vuole crescere nel suo complesso), ad una maggiore meritocrazia nell'assunzione di ruoli dirigenziali (c'è ancora troppa cooptazione nei ruoli apicali). 
Il valore economico dei diritti tv è quindi collegato, strettamente, ad una visione di scenario che ancora non vedo nel nostro Paese. 
 Un altro tema delicato è quello delle sponsorizzazioni, indipendentemente dagli sport. La grande differenza con le altre nazioni da cosa è determinata?
E' determinata, soprattutto, da strutture di management e di organizzazione aziendale (non sempre di alto livello), che portano, inevitabilmente, sponsor di alto profilo a cercare di "dialogare" e lavorare con "aziende" (SPA o meglio ancora multinazionali dello sport), più che con semplici club sportivi. Questo significa che ci troviamo di fronte a realtà (aziendali) che cercano, nelle società di calcio, dei veri propri partner, con i quali organizzare attività di co-marketing (in primis), meglio ancora se con una declinazione a livello commerciale. Non è più sufficiente (se analizziamo il fronte dei football club) pensare di "vendersi" sul mercato, solo perché magari si gioca in serie A. Non è più sufficiente per intercettare risorse importanti sul mercato del largo consumo, per esempio. 
Il fatto che, nella massima serie calcistica tricolore, ci sia una percentuale di sponsor italiani superiore all'85% è il "segnale" di una assoluta indifferenza da parte delle multinazionali. 
 Lo sport italiano come può accorciare il divario che lo separa, in termini economici e di appeal (basti pensare ai palazzetti di tutto il mondo, oltre agli stadi, sempre pieni per ogni tipo di disciplina)?
Come ha correttamente sottolineato, di recente, Michele Uva, DG della FIGC e vice-presidente Uefa, negli ultimi 10 anni, in Europa, sono stati costruiti o ristrutturati 137 stadi, per un investimento totale di 15 miliardi di euro. Di questi solo tre in Italia, per un investimento di 150 milioni di euro. Questo dimostra che non c’è stata assolutamente attenzione per le infrastrutture, vuoi per mancanza di visione, vuoi per l’incapacità di valorizzare gli impianti esistenti. Il risultato è che gli stadi, ancora oggi, rimangono semi vuoti, se è vero che, nel frattempo, 16 milioni di biglietti nella nostra serie A sono rimasti invenduti. Stiamo lentamente risolvendo il problema della violenza negli stadi, ma la "casa" del calcio italiano, in media, è ancora troppo vecchia. 
 Sarà mai possibile copiare un sistema come quello americano dove, sin dai licei, lo sport è parte integrante del vivere degli studenti, tanto da richiamare le attenzioni di grandi sponsor anche per i campionati liceali e universitari?
Credo che sia molto difficile, anche se da tempo molti analisti di settore guardano a questo modello come ad un benchmark di assoluto riferimento. Il sistema americano sportivo parte, storicamente, da un "patto" di acciaio con il sistema scolastico, che fa assolutamente la sua parte (e la fa anche molto bene), in una prima parte delle filiera dello sport, che arriva chiaramente fino al mercato professionistico (sostenuto da sponsorizzazioni record e dai diritti tv). Nel nostro Paese abbiamo, invece, scuole fatiscenti e palestre (ove presenti) a dir poco da terzo mondo (a partire dal tema del rispetto delle più basilari norme di sicurezza). 
  Nel calcio (non solo italiano) si sta assistendo ad una progressiva digitalizzazione nel rapporto con il tifoso. E' un fenomeno/moda o può realmente creare valore per i club (nel futuro)?
Anche in questo settore, quello dei "new media", l'Italia deve recuperare un gap molto elevato. Solo Juve, Milan, Roma e Inter, provano a competere, con molta difficoltà, con i restanti club stranieri. Sicuramente le squadre inglesi e spagnole, hanno un vantaggio linguistico indiscusso, che non possiamo recuperare, pur avendo costruito piattaforme multilingue nei rispettivi sistemi digitali. Oltre a ciò i club inglesi, spagnoli ed inglesi, si sono spinti all'estero, sui nuovi mercati, più frequentemente cercando di costruire in loco (per crescere nel tempo) e non di affidarsi alla estemporaneità di una tournée seppur importante. Da pochi mesi l'AC Milan, per esempio, ha aperto una branch in Cina (Milan China). E' un fatto positivo in termini assoluti, ma arriva con 15 anni di ritardo (rispetto alle politiche di internazionalizzazione di altri club). Questo dobbiamo dirlo, altrimenti daremmo una visione distorta della realtà. 
Sul terreno dello sviluppo digital dei club è chiaro che parliamo di piattaforme di "ascolto" (dei bisogni dei tifosi) e di "contatto". Non si può oggi rimanere fuori da questo settore (quello dei social e dei new media), ma non ci si può soltanto fermare all'aspetto meramente numerico.