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Gladiatori, schiavi o campioni?

Il cinema li rievoca come star dello sport, l'arte li mostra come modelli di forza, la storia li ricorda come idoli di folle. Ma chi erano veramente i gladiatori? Una mostra all'Ara Pacis rimette tutto in prospettiva, ispirandosi al più celebre di loro: Spartaco.

di Giuliano Giulianini

"Omnes homines aut liberi sunt aut servi”
Tutti gli uomini o sono liberi o sono schiavi. La "sentenza" è del giurista Gaio, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, nel periodo più fulgido dell'impero romano, quando nel suo immenso territorio vivevano tra i 6 e i 10 milioni di schiavi, il 10% della popolazione, percentuale che arrivava al 30% nelle grandi città. Gaio non pronunciò la frase con intento filosofico, il suo era un pronunciamento giuridico, la citazione intera infatti recita: "La maggiore differenza nel diritto delle persone è questa, che tutti gli uomini o sono liberi o sono schiavi." E i gladiatori erano schiavi.
Il museo dell'Ara Pacis ospita una mostra molto illuminante sulla questione. Il titolo "Spartaco, schiavi e padroni", può lasciare intendere che si tratti qui di gladiatori, "schiavi" di diritto, ma "padroni" del loro destino, in lotta verso un futuro di gloria e libertà, da conquistare spada alla mano, con la destrezza, il coraggio, il talento e la fatica. Non a caso si chiamavano "ludi" gladiatori: giochi, come quelli olimpici. Oggi probabilmente si chiamerebbero sport. 
E i gladiatori erano forse quanto di più vicino a un atleta moderno avesse da offrire l'antichità romana: uomini (e donne, sebbene le gladiatrici furono molto rare) che curavano all'estremo il proprio fisico; vivevano di allenamenti massacranti ed eccessi dissoluti come certi "divi" dello sport moderno; gente che scendeva in campo tra le urla del pubblico, che lo deliziava o lo deludeva, che ispirava emulazione, identificazione, affezione e odio. Negli "Annali" Tacito, riferendo delle "tifoserie" che i gladiatori attiravano all'arena, scrive di episodi che potrebbero leggersi oggi nelle cronache dei quotidiani sportivi: "Sulle gradinate sono passati dagli insulti alle vie di fatto. Prima c'è stata una sassaiola e poi si sono accoltellati. I pompeiani hanno avuto la meglio. Molti nocerini sono tornati a casa mutilati di ferite in più parti del corpo."
"Uomo di forza e spirito eccezionali" disse Sallustio di Spartaco, Lenin lo definì un eroe e Montesquieu scrisse che la sua ribellione fu la più legittima delle guerre mai intraprese. Ma nel prendere a soggetto il più celebre dei gladiatori, il ribelle che sollevò contro Roma 70 mila schiavi di tutta l'Italia, i curatori della mostra Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini, non avevano intenzione di raccontarci gesta e aneddoti di combattimento, celebri carriere nell'arena e storie di riscatto sociale. I protagonisti della mostra non sono il manipolo di gladiatori fuggiti dalla scuola di Capua con Spartaco, né lui stesso; ma gli altri, i 70 mila che lo seguirono, e il resto dei 10 milioni: gli schiavi dell'impero, e i loro padroni. Il tema dell'esposizione, che si avvale di 250 reperti archeologici, quadri, video citazioni e pannelli testuali che raccontano tutta la storia, è la schiavitù tout court: l'efficiente e tragica economia di questo sistema che ci pare così assurdo ma, come vedremo, non è purtroppo una reliquia del passato.
Come Spartaco, la maggior parte degli schiavi era preda di guerra. L'eroico Scipione, dalle guerre puniche ne portò a Roma 300 mila; l'amato generale Mario, campione dei plebei contro i patrizi durante le guerre sociali, ridusse in schiavitù 150 mila tra cimbri e teutoni; Ottaviano, fautore della pax romana, nel 36 a.C. riportò ai loro padroni romani ben 30 mila uomini sfuggiti alla schiavitù e unitisi al rivale Pompeo; di Giulio Cesare, figura che la Storia ricorda con indulgenza e ammirazione, si racconta che schiavizzò addirittura un milione di persone nel corso delle sue campagne in Gallia.
Nelle teche, alle pareti e sui piedistalli della mostra: statue di attori e ritratti di prostitute (lavori da schiavi), mosaici di pescatori e contadini, gerle da minatori, immagini di aurighi, bassorilievi di germani uccisi in battaglia; e strumenti di coercizione come le catene, o i collari che identificavano gli uomini e le donne non liberi: "Tene me ne fugia", tienimi affinché non scappi, si legge ancora su questi pendenti, che ricordavano ai cittadini romani di restituire i servi ai loro legittimi padroni.
Le tabelle raccontano episodi terribili. Come la sequenza di "guerre servili" che Roma dovette affrontare tra il 135 e il 71 a.C., fino a quella di Spartaco che fu l'ultima. La prima portò addirittura a un regno di schiavi in Sicilia, ma fu represso nel sangue con migliaia di morti. La seconda finì quando mille ribelli furono catturati e destinati al circo di Roma, ma si suicidarono in massa prima di arrivare.

Episodi crudi, ma il vero colpo allo stomaco è la mostra nella mostra, le 10 fotografie che accompagnano la narrazione: selezionate dalla curatrice Alessandra Mauro ci ricordano che ancora oggi, XXI secoli dopo Spartaco, si stima che 21 milioni di esseri umani vivano in condizione di nuova schiavitù. Sono i soldati vietcong legati come animali portati al macello da soldati americani che li mostrano con la superbia del conquistatore nella foto di Philip J. Griffith; sono le bambine prostitute fotografate in Tailandia da Patrick Zachmann; sono i minatori di zolfo di Caltanissetta fotografati nella loro nudità da Fulvio Roiter; è l'africano con lo sguardo nel vuoto, ritratto in una squallida baracca nelle campagne di Qualiano, Napoli, dopo una giornata di "lavoro" nei campi.

Spartaco. Schiavi e padroni a Roma
Museo dell’Ara Pacis. Lungotevere in Augusta, Roma
Fino al 17 settembre 2017
Info: www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it