Sciabole, onore e passione!
Alessio Boni, al Teatro Quirino con "I Duellanti", coglie nel racconto di questa epica rivalità, e nella nobile arte della scherma sportiva, valori di dignità, eleganza e tradizione necessari alle sfide del terzo millennio.
di Giuliano GiulianiniDal 23 febbraio al 6 marzo il Teatro Quirino offre la scena a "I Duellanti", pièce tratta dall'omonimo racconto di Joseph Conrad, reso celebre dal film di Ridley Scott del 1977 con Harvey Keitel e Keith Carradine. La riduzione teatrale, mai tentata prima e salutata con favore dalla critica, è opera di Francesco Niccolini, Roberto Aldorasi, Alessio Boni e Marcello Prayer. Questi ultimi indosseranno i panni dei protagonisti: gli ufficiali ussari D'Hubert e Féraud, che per una questione d'onore si sfidano ripetutamente a duello per ben 25 anni sullo sfondo delle guerre napoleoniche. Abbiamo intervistato Alessio Boni, non nuovo a interpretare personaggi bellicosi in punta di lama, che dello spettacolo è anche co regista insieme ad Aldorasi.
Questo testo si presta a molte chiavi di lettura: dal conflitto generazionale a quello politico, dalla lotta di classe alla semplice rivalità tra due uomini che si odiano. Su quale aspetto avete puntato per questo adattamento?
Per riassumere in un aforisma il sunto della nostra rilettura direi: qualunque sia la tua professione una stoccata nella vita devi darla. Non c'è bisogno della sciabola, ma non devi adagiarti, né prendere per buono quello che il passato ti porta: è vero che se semini a gennaio non cresce nulla, ma nel 2016 bisogna prendere in mano la propria vita. Ognuno a modo suo.
Ti sei chiesto come mai nessuno abbia mai adattato al teatro il racconto di Conrad?
Ci siamo fatti questa domanda mille volte. Niccolini, che è un attento drammaturgo, è andato a scartabellare ma non ha trovato nulla, a livello mondiale. Forse si presta di più al cinema: con gli ussari, le cariche di cavalleria, i duelli. Forse la sfida è stata dettata dall'incoscienza, ma più lavoravamo sulla drammaturgia e più era potente la teatralità che ne usciva. In effetti mi ha spaventato che non ci avesse provato nessuno.
Come vi è venuta l'idea?
Tre anni fa ero andato a vedere uno spettacolo di Alberto Aldorasi: un monologo del mio carissimo amico Marcello Prayer. Ero preoccupato di annoiarmi con un monologo ma invece mi ha stupito, non mi ha fatto mancare altri personaggi. Alla cena di fine spettacolo il drammaturgo, che era Niccolini, parlò di quest'idea di fare un monologo da I Duellanti. Gli dissi che i duellanti sono due, non poteva farne un monologo: i duellanti eravamo io e Marcello, il nord e il sud, io di Bergamo lui di Bari. Da lì è nata la scintilla, ci è entrata dentro: tutti e quattro abbiamo capito che l'idea era potente, e così è andata.
Come hai scelto il tuo personaggio tra i due?
Abbiamo voluto restare sul tema originale. D'Hubert è del nord della Francia, Féraud è un guascone del sud. Abbiamo mantenuto la mia stizzosità bergamasca e l'energia che viene della terra che invece caratterizza Marcello. Ci siamo guardati e detti: siamo noi due. In più ci serviva un "collante": oltre alla musica della brava violoncellista Federica Vecchio, abbiamo preso un bravo attore, Francesco Meoni, che interpreta cinque parti per tenere insieme la storia. A Spoleto (dove la pièce è stata presentata la prima volta, ndr.) siamo andati come una cenerentola; invece siamo stati accolti in modo notevole ed ora debuttiamo. Sono curioso di sapere come andrà perché, al di la delle critiche che possono far piacere, conta il pubblico: veramente gli interesserà il tema? L'onore, questa cosa che spinge i due a portare avanti una disputa per 25 anni a causa di una parola data. Ritornare all'etica, al rispetto, all'orgoglio, alla dignità, alla cavalleria, mi sembra un monito per qualcosa che manca oggigiorno: c'è troppa sciatteria, qualunquismo, furbizia; scappiamo davanti a tutto, non ci assumiamo la responsabilità di niente. All'epoca invece si affrontavano davanti alla morte: mi hai mancato di rispetto? Ci battiamo domattina alla cinque. Oggi sarebbe impensabile.
Lo spettacolo è anche una performance sportiva: in effetti vi battete con le spade in pugno.
Certo, ne I Duellanti non può mancare il duello. L'abbiamo sviscerato in un certo modo altrimenti sembrava un'esibizione sportiva, appunto. Chi vedrà lo spettacolo capirà. Però si duella: è una prova quasi da samurai, di concentrazione; bisogna stare molto attenti per non farsi male con le sciabole, anche se non hanno la lama.
Sappiamo che avete preso lezioni di scherma.
Di sciabola, da Renzo Musumeci Greco (noto maestro d'armi di cinema e teatro, ndr). Avevo già trascorsi con lui dai tempi dell'accademia d'arte drammatica e il ruolo nello sceneggiato "Caravaggio". Ma la spada del 1500 era diversa, più pesante, da impugnare a due mani. La sciabola ha un altro dinamismo, va di taglio; richiede un'altra postura, più elegante, con il collo sollevato. L'etichetta era fondamentale per un ussaro, la classe nello sciabolare era tutto.
Queste esperienze hanno cambiato il modo in cui guardi, ad esempio, la scherma olimpica?
Sono già iscritto alle lezioni di scherma di Musumeci Greco, ed esorto chiunque a praticare questo sport meraviglioso che ti riporta indietro nel tempo. E' stranissimo: i primi giorni ti senti impacciato, poi pian piano senti che fa parte di te. Io credo nella memoria genetica: un gene dei nostri antenati è passato a noi senza che lo sappiamo; l'abbiamo dentro, e si fa sentire. La spada diventa il prolungamento delle nostre ossa come di quelle del nostro antenato che la teneva in mano per difendere se stesso, o l'onore della moglie o dell'amata. Fa parte dell'uomo.
Ora sei molto preso dal teatro ma sei noto soprattutto per i tuoi ruoli in sceneggiati televisivi e film da grande schermo. In quale direzione va la tua carriera?
Vado dove mi piace. Sono partito dall'Accademia d'Arte Drammatica Silvio d'Amico e prima di qualunque altra cosa ho fatto sette anni di teatro. Ovvio che per il grande pubblico è importante "Incantesimo", "La meglio gioventù", "Caravaggio" o "La bestia nel cuore", però ho cercato sempre di non abbandonare il teatro perché è il termometro giusto. La cosa giusta è trovare un bel personaggio che faccia parte di una buona scrittura con un buon regista; se poi questo succede nell'ambito televisivo, cinematografico o teatrale non fa molta differenza. Mi piacciono tutte e tre le forme artistiche. Del teatro ho bisogno perché sento una sorta di terapia di gruppo con la gente che ho di fronte: sento questo termometro, capisco dove ridono, dove stanno zitti, dove si commuovono; so dove il pubblico italiano sta andando oggi, umanamente. E' importante capirlo, perché posso portarlo anche su un set cinematografico o televisivo. Facendo una sola cosa non mi sentirei così completo.
Quindi I Duellanti è il testo perfetto, perché è nato come letteratura, è stato cinema, ed ora anche teatro.
Si, è vero (ride, ndr.)