Nino La Rocca
Una bellissima storia
di Valeria Barbarossa
Sul ring era veloce e imprevedibile. Sorprendeva e divertiva per i suoi colpi spettacolari. I numeri parlano chiaro: su 80 incontri ha portato a casa 74 vittorie di cui 54 per k.o. Un campione degli anni ’80 nella categoria Pesi Welter che ha dedicato la sua vita alla boxe nonostante le delusioni e gli inganni subìti da un ambiente spesso inghiottito da interessi economici e poca etica.
Ascoltare da Nino La Rocca la storia della sua vita è come perdersi nelle pagine di un bellissimo libro. Ci incontriamo nella palestra di un amico comune. È un gentiluomo, sorridente e solare. Ci sediamo in una grande sala vuota e iniziamo a parlare del più e del meno. Dopo qualche minuto, dimentico il foglio delle domande e ascolto…
“La passione per la boxe è iniziata da piccolo. Mio zio Mariano amava il pugilato. Ci davamo un sacco di botte nonostante fossi molto gracile. Lasciò il Marocco che avevo tredici anni e se ne andò in Francia per lavoro. Lo raggiunsi un anno dopo ma non potendo vivere con lui a causa dei suoi spostamenti, affittai una stanza a Parigi con un amico nella speranza di trovare un manager. Il primo fu Jean Brotonnel ma visti i miei quattordici anni e la mia magrezza non mi seguì molto. Incontrai Roger Bensaid, un ebreo francese che aveva tutti pugili africani. Gli chiesi se poteva seguire anche me. “E che ci faccio con te?” mi disse. Lo pregai di darmi un’opportunità e così fece. Mi dava cinque franchi francesi al giorno per mangiare, dormire e studiare. Organizzò il primo combattimento a Parigi con un pugile decisamente forte. Lo scopo di Roger era solo di recuperare i suoi soldi, non gli importava di me. Non avevo scelta, accettai di scontrarmi con un avversario superiore. Non so se mi ha aiutato Dio ma lo misi k.o. alla prima ripresa. Il mio manager, esaltato, mi organizzò subito un altro incontro. Anche questa volta l’avversario era un gran picchiatore ma il match si concluse come il primo. Feci poi altri due combattimenti in Africa, vinti entrambi per k.o. Roger continuava a darmi solo campioni perché gli affari erano affari ma ogni volta rischiavo la vita. Credo che solo la fame e il duro lavoro mi abbiano tenuto in piedi. Esasperato, sono scappato e un altro mio zio, Nino, mi fece incontrare Rodolfo Sabbatini (un famoso organizzatore di incontri n.d.r.). Era a Montecarlo in un bellissimo albergo. Mangiava ostriche e champagne mentre io dormivo in spiaggia e mangiavo pane. Mi presentò Rocco Agostino, il manager di Bruno Arcari, ex campione del mondo che considero il più grande di tutti, che decise di tenermi sotto la sua ala. Avevo diciotto anni, mi fece un po’ da padre e un po’ da padrone. Iniziai un serie di incontri che vinsi tutti per k.o. Ero felice, le cose iniziavano finalmente a girare bene ma non avevo nessuno con cui condividere la mia gioia. Ero da solo a Bogliasco con Agostino che, severissimo, controllava la mia vita. Volevo scappare e così, con la scusa di dover sbrigare degli impegni, me ne andai in Francia. Rientrato in Italia perché costretto da lui, iniziai la mia preparazione ma avevo un problema burocratico perché non mi veniva concessa la nazionalità italiana. Per fortuna intervenne Sandro Pertini che vedendomi in diretta durante una trasmissione con Gianni Minà, mi invitò al Quirinale e si interessò alla mia vicenda. Feci molti incontri e li vinsi tutti ma in quel periodo, era il 1984, arrivò anche la mia prima sconfitta. Durante il mio attacco per la conquista del titolo europeo contro il francese Gilles Elbilia, dovetti abbandonare il match per una capocciata che mi provocò una ferita suturata con 30 punti. Andò a fare il mondiale al posto mio. Aspettavo di qualificarmi per il titolo mondiale, ho aspettato due anni. Ho battuto Bobby Joe Young ma non riuscii a vincere contro Donald Curry e il mio sogno si infranse. Successivamente, conquistai il titolo europeo battendo l’inglese Kirkland Laing. Nello stesso anno, era il 1989, disputai il combattimento per la difesa dello stesso titolo contro Antoine Fernandez. L’incontro avvenne in casa dell’avversario, fatto scorretto perché il campione solitamente gioca in casa. Questo mi costò la sconfitta ma la mia impressione fu che mi vollero far fuori dal mondiale.
Dopo quel match Agostino fissò un incontro offrendomi 10.000 dollari senza darmi troppe spiegazioni sullo sfidante. Salii sul ring contro un venezuelano che partì subito con un cazzotto lasciandomi di stucco. Mi girai disorientato verso il mio manager come a volergli chiedere “Ma chi è questo fenomeno?”. Era Luis Gabriel Garcia, un pugile venezuelano fortissimo. Stavo combattendo per un titolo mondiale senza saperlo: il World Boxing Council Pesi Welter. Durante il match non facevo altro che abbracciarlo per evitare i colpi. Sapevo di rischiare la squalifica ma non ce la facevo più, desideravo solo che finisse. Mi ero preparato per otto riprese e non per dodici. Fu, infatti, proprio all’ottava che mi squalificarono. Quello fu il mio ultimo incontro, dopodiché ho detto basta con il pugilato.
Il popolo italiano mi ha sempre dato dimostrazioni di grande affetto che mi riempiono tutt’oggi di gioia. Non smetterò mai di ringraziarlo. Ho alzato con grande orgoglio la bandiera tricolore perché mi sento e sono italiano. Mi dispiace solo che le istituzioni non siano state poi così riconoscenti nei miei confronti. Questo è il mio unico rammarico”.