LA FEBBRE DEL 6 NAZIONI
Sergio Parisse, il capitano dell’Italia del rugby, ci racconta i suoi quindici anni di Sei Nazioni e il suo nuovo ruolo nella squadra.
Quasi vent’anni di Sei Nazioni. Diciannove per la precisione. Il bilancio è durissimo. Poche, pochissime vittorie – tutte meritate però e soprattutto commoventi. Molte, moltissime sconfitte e cucchiai di legno. Delusioni cocenti che ogni anno, quando arriva il Sei Nazioni, si trasformano in speranze. Di fare meglio. Di essere all’altezza della situazione. Nel mondo ovale non sentirete mai un tifoso annunciare che la propria squadra vincerà una partita. C’è passione e attaccamento ma rispetto ed educazione. Non è retorica ma a rugby si gioca con il cuore ed è forse per questo che – nonostante le sconfitte - i tifosi tornano sempre allo stadio. Se fosse calcio le tribune dell’Olimpico sarebbero vuote, i giocatori contestati, gli allenatori cacciati.
Sergio Parisse è il capitano degli azzurri, ha giocato ben 15 Tornei delle Sei Nazioni. Un record anche a livello internazionale. Potenza, tattica e talento. E’ il miglior giocatore che il rugby italiano abbia mai avuto, più volte selezionato tra i cinque candidati a “Best Player” mondiale. Mai nessun italiano come lui. Per intenderci, Sergio Parisse sarebbe titolare anche con l’Inghilterra. E’ aquilano ma è nato in Argentina, figlio d’arte. Cromosomi azzurri. Gioca nel campionato francese con lo Stade Francais come terza centro, ovvero numero 8. Con l’Italia esordì nel 2003 in Nuova Zelanda contro gli All Blacks. Lo abbiamo raggiunto nel ritiro dell’Acqua Acetosa alla vigilia della partita più difficile del torneo, quella con l’Inghilterra.
Sergio riusciremo mai un giorno a vincere il 6 Nazioni?
“Questo è il sogno di tutti noi anche se siamo coscienti di essere la squadra meno attrezzata per vincerlo ma è un desiderio che c’è sempre stato in tutta la squadra. Vietato parlarne però, siamo troppo lontani. Mi sento un privilegiato ad aver avuto l’opportunità di giocare il Sei Nazioni per così tanto tempo. Tantissimi anni fa il nostro sogno era di entrare a far parte di questo torneo e ci siamo riusciti grazie ad un gruppo di giocatori fantastici che, sul finire degli anni ’90, si guadagnarono sul campo la considerazione degli inglesi. Non smetterò mai di ringraziarli. Il sogno ora è di riuscire a vincerlo. Un traguardo che sembra impossibile da raggiungere. Io però ragiono partita per partita. 15 uomini contro 15. Tutto può succedere. Bisogna sempre giocarsela. Nessun italiano si sarebbe mai immaginato di vedere l’Italia battere il Sud Africa, oppure due volte la Francia, eppure è accaduto.”
Quindi abbiamo speranze?
“Non dobbiamo fare errori e dobbiamo resistere con tutte le nostre forze. In questi anni abbiamo ottenuto bei risultati ma tutti isolatamente, “a spezzettoni”. La vittoria a Edimburgo contro la Scozia nel 2007 ci cambiò la vita. Abbiamo bisogno di continuità, dobbiamo essere una squadra che ogni volta che scende in campo mette in difficoltà gli avversari, poi si può anche perdere. Non possiamo alternare prestazioni pazzesche a mediocri”.
Nell’Italia di Connor O’Shea ci sono tanti giovani. Quanto è cambiato il ritiro della nazionale? Non ci sono più Castro e Gonzalo Canale che facevano continuamente gli scherzi a tutti…
“Gonzo e Castro erano unici ma non c’erano solo loro. I tempi cambiano e le generazioni pure. E’ giusto che sia così. Abbiamo tanti giocatori che stanno iniziando ora il loro percorso in nazionale affacciandosi nell’alto livello del rugby internazionale. Sono fortunati. Sono diversi da Canale e Castrogiovanni ma hanno il giusto atteggiamento per affrontare una nuova parte della loro vita. Hanno una grande guida nel Ct Connor O’Shea che sta cambiando il rugby italiano. Bisogna avere pazienza perché in passato abbiamo sbagliato per troppo tempo. Io non ne ho tanto. A 34 anni il mio ruolo è di stare accanto a questi ragazzi. Sono a loro disposizione con tutta la mia esperienza e tutto me stesso. Il livello del rugby italiano non ha niente a che vedere con quello del Sei Nazioni. L’impatto farà rumore.”
Con quale spirito si entra in campo quando inizia il 6 nazioni?
“E’ impensabile entrare in campo con una concentrazione bassa. Noi siamo sempre al massimo con la testa poi speriamo di riuscire a fare bene. E’ difficile da spiegare ma a volte succede che abbiamo dato tutto ma abbiamo preso 30-40 punti di scarto. La gente non capisce. Affrontiamo questo Sei Nazioni sapendo che non abbiamo la pressione di dover vincere il torneo. Abbiamo il dovere però di far tremare le altre squadre. Ogni volta che giocano contro di noi devono pensare “… uff, che rompiscatole che sono questi italiani. Se non diamo tutto e non giochiamo al 100 per cento ci fanno lo scherzetto”... Questo deve essere il nostro approccio, dobbiamo andare in campo senza pensare troppo al risultato ma alla prestazione. Altrimenti non si può vincere. Anche quest’anno la musica non cambia, sarà un Torneo estremamente difficile e complicato però nella vita sono queste le cose belle, quelle facili non ci interessano.”