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Il Pugile del Duce

Il documentario su Leone Jacovacci, il pugile nero cancellato dal fascismo

Di Marta Angelucci

Le colpe del fascismo sono molte, innumerevoli. Tony Saccucci, nel suo documentario Il Pugile del Duce ispirato al libro di Mauro Valeri Nero di Roma, ne racconta una in particolare, legata alla storia di Leone Jacovacci, il pugile nero cancellato da Mussolini e dal Partito Fascista.
È il 1888: Umberto Jacovacci, ingegnere agronomo romano, parte per il Congo in cerca di fortuna e per sfuggire alla crisi economica. Lì trova lavoro e mette incinta la figlia di un capo tribù del luogo: la ragazza (o per meglio dire bambina, avendo solo dodici anni) si chiama Zibu Mabeta e il 19 aprile del 1902, a Sanza Pombo, partorisce un bambino, Leone.
A soli tre anni, il padre lo strappa dalle braccia della madre, portandolo in Italia e facendolo crescere coi nonni nel viterbese. Leone è però un bambino irrequieto: scappa da vari collegi, finchè, a sedici anni, non fugge a Taranto e si finge un ragazzo di Calcutta, facendosi imbarcare come mozzo su una nave da guerra diretta in Inghilterra.
Cambia il suo nome in John Douglas Walker e si arruola nel 53º battaglione del Bedfordshire Regiment dell'esercito inglese. Contemporaneamente impara la boxe e nel 1920 esordisce come pugile col nuovo pseudonimo di Jack Walker, omaggio al pugile Jack Dempsey. Mentre passeggiava lungo il Tamigi viene ingaggiato all’ultimo momento per combattere: doveva sostituire un pugile afroamericano che aveva dato forfait. L’avversario era uno dei migliori pesi medi dell’epoca: al terzo round, Leone lo manda KO.
Da lì comincia la sua ascesa: collezione per l’Europa, specialmente fra Londra e Parigi, una serie ininterrotta di vittorie. Nonostante il suo essere cittadino del mondo però (Leone parla infatti cinque lingue, romanesco compreso), è l’Italia che il pugile sogna: nel 1922 torna in patria, vedendosi però negata la richiesta di cittadinanza. Due anni dopo vince contro il campione italiano e campione europeo dei pesi medio-massimi e diventa sparring partner del suo idolo e campione mondiale Jack Dempsey; poi fugge in Francia perché deluso dall’Italia. Anche qui non ottenne la cittadinanza. Nel 1926 aveva vinto 10 incontri su 12: era il pugile italiano più forte del momento. Gli italiani infatti lo seguono, lo amano, lo conoscono per le sue gesta: lo chiamano il “magnifico mulatto”, “caffè latte Jacovacci”.
Finalmente il lunghissimo iter per la richiesta della cittadinanza si conclude nel 1927: Leone è riconosciuto italiano. Ed è proprio qui in Italia, l’Italia che colonizzava il Corno d’Africa, che comincia la sua decadenza, segnata da quel fatidico 24 giugno 1928: lo stadio Nazionale di Roma, futuro Flaminio, era ghermito da 40mila spettatori (nella fola figuravano anche Gabriele D’Annunzio e i gerarchi Balbo e Bottai). La sfida per il titolo europeo dei pesi medi era il primo incontro di boxe trasmesso in radiocronaca diretta e aveva fatto record di biglietti venduti. Leone, amatissimo in Europa e in Italia (nonostante l’ostracismo del Partito Fascista) si scontra con il latteo Mario Bosisio, campione in carica. Era di certo quest’ultimo, bianco, biondo e fascista, l’immagine che Mussolini e il Fascismo volevano per rappresentare l’Italia e Roma di fronte all’Europa; di certo non era quella di un pugile mulatto, specialmente alla vigilia delle leggi razziali. Sebbene Leone rimanga, anche se misconosciuto, uno degli sportivi più importanti della nostra nazione, capace di battersi e vincere in due diverse categorie, pesi medi e mediomassimi. Il match ha inizio ed è il “magnifico mulatto” ad avere la meglio: la vittoria è netta, è Leone il nuovo campione italiano ed europeo. Un afroitaliano ha vinto il titolo davanti a 40mila persone: già troppe per ricordarlo. Da quel momento il regime opera una totale censura della vittoria di Leone: sui giornali non se ne parla, e il filmato integrale dell’incontro realizzato dall’Istituto Luce si ferma alla quindicesima ripresa. La vittoria di Jacovacci è semplicemente cancellata, non è mai avvenuta: è Bosisio ad aver vinto, e lui stesso millanterà la propria fasulla supremazia in tutti i cinegiornali italiani, senza un briciolo di vero orgoglio sportivo. La damnatio memoriae non colpisce però del tutto il popolino, come mostra questa pasquinata: «Non t’arrabbiar Bosisio/ se Jacovacci te rompe er viso/ se ce rifarai un’artra vorta/ te manna a casa co le ossa rotta».
Il documentario di Saccucci, uscito il 21 marzo, giornata mondiale contro il Razzismo, racconta la storia di uno dei tanti italiani dimenticati e cancellati dal regime: come ricorda Mauro Valeri, infatti, la rimozione che il fascismo ha operato sui neri copre non solo Leone. «Nessuno sa che nella Prima Guerra Mondiale c’erano quattro ufficiali neri italiani. – spiega Valeri – Il primo aviatore nero al mondo era italiano, ma il fascismo ha oscurato queste figure. (…) Nella storiografia, i neri in Italia praticamente non esistono, e questo ha favorito una certa mancanza di anticorpi antirazzisti nel presente. Ugualmente, oggi i neri e meticci italiani non trovano rappresentazione nei media: non esiste una serie tv, una trasmissione che rappresenti una popolazione di otto milioni di persone». Saccucci, che è anche insegnante di storia, aggiunge: «Mussolini ha orchestrato la rimozione dei neri. Non parlarne equivaleva a non farli esistere, perché la storia non è che una ricostruzione della politica in base alle esigenze del presente».
Qual è la conclusione della storia di Leone? Sempre più ostacolato dal regime, unitamente al declino fisico (una brutta ferita all’occhio gli provocò il distacco della retina) Leone passò dal pugilato al catch, per poi abbandonare definitivamente la carriera sportiva. Sopravvissuto a sette infarti (un autentico toro), si spegnerà a Milano il 16 novembre 1983, dove aveva trovato lavoro come portiere di un condominio. Attaccato ai suoi ricordi, tutti custoditi in un libro pieni di fogli di giornale che lascerà alla figlia, giacerà dimenticato l’invincibile Leone Jacovacci, in un’Italia mai in grado di proteggere i propri tesori, e che li piange sempre troppo tardi.