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Gelindo Bordin: l'atletica impari dal nuoto

Il campione olimpico di Seul '88 ha partecipato alla presentazione delle Circoliadi 2017, raccontandoci qualche ricordo trionfale e proponendo una formula per riportare l'atletica leggera italiana ai fasti degli anni '80.

di Giuliano Giulianini

Gelindo Bordin è il primo italiano ad aver vinto la maratona olimpica. Successe a Seul nel 1988, dove vinse la gara più prestigiosa in un'edizione poco soddisfacente per l'Italia. Potrebbe atteggiarsi ad eroe e invece è il prototipo del campione umile, disponibile, saggio e prodigo di consigli per i giovani. Lo abbiamo incontrato alla presentazioni delle Circoliadi, la competizione multidisciplinare tra circoli sportivi della capitale. Oggi Gelindo lavora nel campo dello sport come manager della Diadora. Nel suo saluto al pubblico ha portato ad esempio la figura di Dorando Pietri, mettendo in secondo piano i suoi trionfi. Perciò ne parliamo noi.

Il mio ricordo del momento della vittoria di Seul sei tu che arrivi al traguardo con un'energia incredibile, che non ho più rivisto in un maratoneta alle olimpiadi...
Sembrava... (ride, ndr.)
... e subito dopo quel bellissimo gesto del bacio alla pista. Quali sono i tuoi ricordi?
Ricordo tre momenti importanti di quella gara. Il primo, quando i due atleti africani, Salah e Wakiihuri, mi hanno staccato a quattro chilometri dalla fine. Stavo rivivendo il film di Roma '87 (i mondiali di atletica leggera, ndr.) dove arrivai terzo dietro a loro due. È stato un momento difficile. Però sono riuscito a rimanere attaccato alla gara. Stavamo andando forte e mi sentivo ancora bene. Poi ho avuto la fortuna di vivere il secondo momento bello: quando ho ripreso prima Wakiihuri poi Salah e sono tornato in testa alla manifestazione. Infine l'ultimo giro di pista. Il tunnel: passare dal boato della folla della strada a un silenzio enorme, poi il boato dello stadio; è il momento più emozionante. Gli ultimi 350 metri sono stati meravigliosi. Il bacio alla pista è stato un segnale per ringraziare quelli che mi sono stati vicino, la buona sorte e tutti quelli che hanno lavorato con me. È stato un gesto spontaneo, non ricercato: in quel momento mi è venuto così.
Durante il tuo intervento alla presentazione delle Circoliadi hai fatto riferimento a Dorando Pietri, il vincitore della maratona di Londra 1908, cui fu tolto il titolo perché aiutato negli ultimi metri. Un omaggio che hai fatto altre volte. C'è qualcosa che ti lega particolarmente a questo personaggio?
Intanto il nome, siamo entrambi dei gerundi: Dorando e Gelindo. Poi la distanza 1908-1988: ricorrenze della sorte. Nella storia della maratona, Dorando, secondo me, è stato uno che ha cambiato gli elementi. Non voglio dire che sia stato il primo maratoneta moderno, perché ancora si correva molto piano e non c'era l'attrezzatura; però è quello che ha cambiato un po' le cose. È diventato professionista, quindi ha cambiato il modo di intendere lo sport di quel tempo. Abebe Bikila è stata l'altra grande figura che ha fatto fare dei passi enormi a questa distanza: con la vittoria delle Olimpiadi di Roma, scalzo, e soprattutto con qualla di Tokio (1964, ndr.) correndo in 2 ore e 12 minuti ha stravolto ciò che era la maratona a quei tempi. Sono due persone che hanno segnato dei paletti e fatto la storia della maratona: cambiamenti importanti per la distanza.
Bikila è passato alla storia per aver vinto scalzo la corsa di Roma, ma anche per aver poi vinto a Tokio calzando delle scarpe sportive. Rappresenta dunque sia l'atleta "puro" che quello moderno, aiutato dalla tecnologia. Tu sei manager di un'azienda che produce abbigliamento e accessori per lo sport; diresti che c'è un contrasto tra il prima e il dopo, o è l'evoluzione, l'industria che "aiuta" lo sport?
Sicuramente in questo momento l'industria aiuta lo sport. Sono cambiati i terreni. Bikila ai tempi si allenava su sterrati, sull'erba, quindi c'era la possibilità di correre scalzi. Arrivando qui ha trovato il pavé di Roma ma aveva comunque una diversa struttura dei piedi. Oggi sarebbe difficile: anche tutti gli atleti africani utilizzano delle calzature, perché gli impatti sono diversi correndo su superfici molto più dure. Inoltre, il mondo amatoriale è fatto di persone che si avvicinano allo sport in non giovanissima età, per cui non hanno la struttura muscolare e ossea pre-formata per correre scalzi. Non camminiamo più scalzi, quindi il nostro corpo si è adattato; e l'industria fa dei prodotti che si adattano al momento dell'evoluzione dell'uomo.
Quando in un circolo incontri degli sportivi, e magari scambiate idee su tempi o allenamenti, che cosa pensi di dare loro, e che cosa ne ricevi?
Quando ero giovane l'incontro con il campione era fondamentale, perché lo scambio di esperienze fa crescere molto. Questo manca allo sport di oggi. Noi tutti, campioni della maratona di allora, ma anche di altre distanze, vivevamo praticamente insieme. Non solo tra italiani, ma anche con gli stranieri. Ci scambiavamo esperienze. Questo ti fa crescere, ti fa capire che l'asticella, il limite che ti sei posto non è quello, ma è molto più alto. L'incontro tra campioni e amatori è un dare e avere. A me da l'entusiasmo di avere ancora dei tifosi, della gente che ha gioito con me in quei momenti. Mi da la consepevolezza di aver portato un po' di gioia. Nella vita non è facile portare gioia alla gente. A loro cerco di svelare qualche piccolo segreto che poi segreto non è; ma soprattutto cerco di far capire che quando si inizia a fare sport, non da giovanissimi, ci vuole rispetto: lo sport fa bene, ci da salute, ma bisogna rispettarlo perché comunque si va a mettere in crisi il proprio fisico. Bisogna lasciare da parte l'agonismo: ci deve essere, la competizione c'è sempre, ma non dev'essere mai esasperata, né con se stessi né con gli altri.
Si può dire che la maratona, disciplina in cui non primeggiamo dai tempi di Baldini ad Atene, è la metafora del nostro paese che forse non ha più voglia di faticare?
Secondo me non è un paese che non ha voglia di faticare. È un paese che fatica a comunicare con i giovani. Le generazioni sono cambiate. Quando io ero piccolo le generazioni cambiavano ogni vent'anni, adesso cambiano ogni cinque anni. La comunicazione è più veloce, usa sistemi diversi: bisogna ringiovanirsi molto. Bisogna fare tesoro dell'esperienza fatta dalla Federnuoto, che è riuscita a far affermare una specialità difficilissima, molto più dell'atletica leggera. Noi facevamo uno sport duro, di impegno fisico, però durante l'allenamento stavamo in mezzo alla gente. Purtroppo in piscina si è soli, con sotto una striscia blu da guardare, e la noia può prendere il sopravvento. Però la Federnuoto riesce a tirar su i giovani, a competere sia con gli uomini che con le donne, perché si è adattata ai tempi che sono cambiati. Le famiglie portano i ragazzini in piscina perché nel pomeriggio è il posto più comodo dove lasciarli, e così crescono i campioni. Questo è un grande esempio. L'Italia non ha un popolo che non ha voglia di faticare: siamo molto vicini all'Africa, più di quanto pensiamo. Abbiamo tutte le caratteristiche per tornare a fare grandi cose, anche in atletica leggera. Bisogna cambiare il modo di fare promozione e tornare in periferia a fare ricerca e parlare ai giovani in maniera diversa. Bisogna cambiare linguaggio, altrimenti non ci capiscono.