Il laureato
Matteo Berrettini, romano del Circolo Canottieri Aniene, è arrivato nel gotha del tennis, entrando nella Top Ten della classifica mondiale e, primo italiano in 40 anni, qualificandosi per le prestigiose ATP Finals: il torneo dei migliori.
di Giuliano Giulianini
“Ambizioni? Sento di aver appena finito l’università. Ce la metterò tutta per diventare il miglior Matteo Berrettini possibile, come giocatore e come persona.”
“Sapere che ci sono tante persone che mi seguono mi dà molta energia e mi carica anche nei momenti meno facili.”
“Il successo del tennis romano? Forse i tanti circoli della capitale per i quali l’agonismo è la priorità.”
C’è qualcosa di fatidico nell’ascesa di Matteo Berrettini all’Olimpo della racchetta. Una promessa di ciò che il tennis italiano maschile attende da molto tempo: un campione che diventi assiduo protagonista dei grandi tornei per gli anni a venire. Qualcosa che non succede dai tempi di Panatta, Barazzutti e Pietrangeli. È lui il predestinato?
In un paio d’anni, appena superati i venti, Matteo è passato da buon giocatore a primo italiano a qualificarsi per le ATP Finals: il Masters… il torneo dei maestri. Non male per uno che ha esordito nell’ATP due anni e mezzo fa; che nella primavera dell’anno scorso festeggiava l’ingresso tra i primi cento e la prima convocazione in Coppa Davis; e che la prima partita di Davis l’ha giocata appena nove mesi fa.
Il primo torneo “vero”, vinto nell’estate 2018 sulla terra rossa di Gstaad, era suonato come una bella promessa, ma dalla primavera di quest’anno la musica è cambiata: le vittorie nei tornei di Budapest e Stoccarda l’hanno portato dalla cinquantesima alla ventesima posizione nel ranking. Stoccarda poi si gioca sull’erba: quindi Berrettini è diventato anche il secondo italiano di sempre (dopo Andreas Seppi nel 2011 a Eastbourne) ad aver vinto un torneo di tennis su un prato verde. Ma il bello doveva ancora venire, e su ben altro prato. A luglio scorso Matteo ha superato tre turni a Wimbledon ed arrivato agli ottavi. Solo altri quattro italiani ci erano riusciti prima di lui. Sul Centre Court però lo aspettava King Roger, destinato a un’epica finale persa al venticinquesimo gioco del quinto set contro un altro monarca: Djokovic.
La lezione imposta da Federer è stata dura: 1-6, 2-6, 2-6. Ma John McEnroe, dalla cabina dei commentatori, ha visto qualcosa e ha profetizzato che il ragazzo sarebbe entrato nella top ten entro la fine dell’anno. Un mese e mezzo dopo, agli US Open, Matteo ha fatto meglio dello svizzero: Roger si è fermato ai quarti mentre il romano è arrivato alla semifinale. Anche qui una lezione di tennis: 6-7, 4-6, 1-6 da Rafa Nadal, che poi vincerà il torneo. Intanto però Berrettini è giunto là dove nessun italiano era più arrivato dopo Barazzutti nel 1977: a un passo dalla finale di New York. Tutto questo è valso, a inizio novembre: l’ottava posizione nella classifica mondiale, l’avverarsi della profezia di McEnroe, e dunque la qualificazione al torneo dei maestri.
Mentre andiamo in stampa Matteo è tornato a Londra per incrociare la racchetta con l’aristocrazia del tennis: sorteggiato nel gruppo “Bjorn Borg” delle ATP Finals, se la gioca con Federer, Djokovic e Thiem.
Se questa storia fosse un’opera lirica saremmo passati in meno di dodici mesi da un “preludio” foriero di premonizioni, a un galoppo di amazzoni valchirie. Esageriamo? Sono troppe aspettative per un ventitreenne che ha vinto il primo torneo ATP un anno e mezzo fa e, in definitiva, per ora al suo attivo 5 tornei e una semifinale di slam? Lo abbiamo chiesto a lui.
Matteo, che cosa ti ha spinto verso il tennis? Che cosa ti piace di questo gioco?
All’inizio sono stati i miei genitori a portarmi al circolo del tennis (il Circolo della Corte dei Conti, nda.). Poi mio fratello (Jacopo, anch’egli tennista professionista, tra i primi 500 nel mondo, nda.) mi ha convinto a giocare dicendo che era troppo divertente. Piano piano mi ci sono appassionato e ho iniziato l’agonismo.
Ci vedi anche degli aspetti negativi, come la pressione o il calendario pieno di impegni?
Gli aspetti negativi dei primi tempi forse erano il lasciare la scuola e finirla da privatista, e non uscire la sera o non poter andare in gita con gli amici. Ma non mi è mai pesato più di tanto, ho sempre scelto io di rinunciare. La pressione non mi dispiace, e nemmeno la notorietà, anzi. Sapere che ci sono tante persone che mi seguono mi dà molta energia e mi carica anche nei momenti meno facili. L’ambiente del tennis è bello: ci sono tanti giocatori veramente simpatici, e anche molti coach con cui uscire la sera a cena.
La profezia di McEnroe a Wimbledon si è realizzata: sei entrato nella top ten. Immagino che tu lo abbia visto giocare in vecchi filmati: che ne pensi di quel tennis con le racchette di legno? Ci hai mai provato?
Ho visto i vecchi filmati: giocavano benissimo con quelle racchettine piccole piccole. Chissà quante palle avremmo steccato noi, con le nostre impugnature estreme. Ci ho provato, e credo che avere un piatto corde più piccolo ogni tanto potrebbe aiutare anche l’allenamento. Ma per giudicare davvero avrei dovuto esserci e viverlo dal vero. Anche il nostro tennis in TV è molto diverso dalla realtà: non ci si accorge bene della velocità e della potenza dei colpi.
Torniamo all’ottavo di finale di Wimbledon con Federer. Hai dichiarato (e ti fa onore) che hai avuto una lezione, che ti servirà, e che sei stato sopraffatto dalle emozioni. Ce le racconti?
È una situazione quasi surreale. Tu stai assistendo ad un match sul centrale di Wimbledon, ma sei anche in campo. Ti meravigli del silenzio, della Royal Box (il palco reale riservato alle grandi personalità, nda.), del campo gigantesco, del tempio sacro del tennis. E di fronte ti trovi il tuo idolo, il tuo esempio e colui che ti ha ispirato a diventare tennista. E non ti fa entrare in partita, mai.
Cambia schemi, giocate, ti sorprende e copre il campo in maniera eccellente. Praticamente ti senti come se la sua parte del campo fosse molto più piccola della tua. Non trovi giocate, allora forzi, spingi, prendi più rischi, ma la partita scivola via in un secondo.
Dei top ten italiani che ti hanno preceduto due, Panatta e Pietrangeli (che inseriamo nel club anche se all’epoca non c’era la classifica ATP) sono nati o cresciuti a Roma. Pensi che ci sia qualcosa di speciale in questa città per il tennis?
Probabilmente si, ma non saprei dirti che cosa. Forse i tanti circoli della capitale per i quali l’agonismo è la priorità.
Tutti ti riconoscono un gran carattere: riflessivo, forte, che impara dagli errori. Sei altrettanto ambizioso? A che cosa miri? A uno slam? A diventare il miglior italiano di sempre? A numero 1 della top ten?
Sinceramente sento di aver appena finito l’università, e di aver terminato il mio primo anno di lavoro. Ho meno partite giocate di tutti gli altri top ten, e credo di avere molti margini di miglioramento. Piano piano, con il mio team, aggiungeremo un tassello alla volta, con tanta voglia di imparare e di andare oltre. Se basterà a vincere uno slam non dipenderà solo da me, ma di sicuro ce la metterò tutta per diventare il migliore Matteo Berrettini possibile, come giocatore e come persona.